La creatività dei bambini e i suoi nemici – Intervista con Arno Stern di Sara Honegger

Lo straniero
Arte cultura-scienza- società.
Numero 107 maggio 2009
riedito poi in Bambini, ottobre 2010

“Ti è stato ricordato che il migliore vince e che devi desiderare di essere il migliore. Per vincere, occorre conformarsi, correre sulla pista che porta al trionfo. Tu hai finito con il credere che solo le lodi e i complimenti contano, e i buoni voti. Hai eseguito il disegno che speravi sarebbe stato apprezzato. Farlo non ti ha procurato alcun piacere, ma del resto ti è stato detto che non dovevi provarne, perché nessuno ne prova, perché solo permane l’angoscia del risultato. Non sempre ci sei riuscito. Questo ti ha fatto credere di non essere tra i migliori. Allora hai invidiato – un po’ – chi otteneva ottimi risultati. In questa corsa al successo, hai scordato la serenità. Sei diventato talmente dipendente da coloro che ti giudicano, da non riuscire più nemmeno ad immaginare un’azione senza un risultato misurabile. (….) Poiché si è fatto di te un consumatore, tu credi che occorra innovare, cambiare, sperimentare svariate esperienze. Ti è stata inculcata l’idea che “ripetere” significhi “noia” e che quindi occorra passare da una cosa all’altra, non soffermandosi mai su nessuna. Ti è stato insegnato a sfiorare tutte le cose e ti vergogneresti ad ignorarne una, ad aver perso ciò che gli altri invece hanno provato tra le mille proposte alla moda (…). Eri così anche tu quando sei approdato al closlieu. Decisamente a disagio, completamente insicuro, senza paletti. Non trovavi il sentiero da seguire. La libertà ti spaventava”.
Tratte da uno degli ultimi libri tradotti in italiano (Felice come un bambino che dipinge, Armando 2006), queste parole visualizzano con chiarezza la posizione che Arno Stern occupa nel mondo contemporaneo: una posizione radicale, le cui coordinate – stabilite negli anni cinquanta e, in ostinata opposizione al confuso andare del mondo, rimaste ferme fino ad oggi – consentono di orientarsi nel groviglio e nell’abbondanza di proposte educative a cui siamo abituati. Nato a Kassel, in Germania, nel 1924, profugo a partire dal ‘33, Stern scopre la sua vocazione a ventidue anni mettendo a disposizione di un gruppo di orfani di guerra qualche tempera, dei foglietti, alcuni pennelli. Inizia così un’avventura educativa capace ancora oggi di mettere in discussione le fondamenta dell’edificio scolastico e di quella pedagogia che, in nome di una concezione dell’esistenza geometricamente simile alla linea retta, vede nella competizione l’unica vera spinta dell’essere umano e nella violenza la principale modalità di azione. Da tempo Stern denuncia la progressiva morte dell’infanzia e ci richiama al dovere di nutrire, per quel nocciolo di umanità che ancora rappresentano i bambini, lo stesso atteggiamento ecologico che si nutre per le specie in via di estinzione. Refrattario ad ogni parentela pedagogica e filosofica, indifferente alle lusinghe dell’intelletto, difende la specificità del closlieu – come viene chiamata la stanza tappezzata di carta da pacco con al centro una tavolozza a diciotto colori – riportando l’attenzione sul foglio dove i bambini lasciano la loro traccia: uno spazio inviolabile, da sottrarre con tenacia all’interpretazione psicologica come pure al nostro bisogno di pubblico, di applauso. Ma a chi abbia voglia di approfondire, non sfuggiranno i profondi risvolti pedagogici del suo lavoro: la disarmante semplicità del closlieu stesso, per esempio, che denudando la relazione educativa costringe il praticien (così viene chiamato l’adulto che conduce il gruppo) a riconoscere le proprie debolezze e incapacità; oppure la sollecita attenzione verso il singolo bambino, protagonista assoluto del foglio bianco e del proprio percorso di crescita, ma anche del gruppo nel suo insieme: il piacere dello scambio intorno alla tavolozza con i suoi diciotto colori. “Fra gli altri”, e mai a scapito, sopra o prima, è infatti frase che torna spesso nel lessico di Arno Stern, e chiunque abbia avuto modo di sperimentare il via vai continuo che nel closlieu si svolge fra singolare e plurale, fra silenzio e parola, sa che è frase non retorica, frutto semmai di un sapiente dosaggio di strumenti, regole (pochissime), opportunità e desiderio. Difficile, quindi, non vedere nell’esperienza del closlieu anche un valore politico, valore che Stern per altro non rifugge, assegnando a queste piccole stanze, le cui uniche finestre sul mondo sono i fogli che i bambini appendono al muro, il valore di esempio: se una società senza competizione e costante giudizio appartiene forse al regno dell’utopia, i closlieux, ha detto verso la fine di un incontro avvenuto a Mendrisio (Svizzera) durante un corso di formazione, esistono già e raccontano un modo differente di vivere la relazione e il proprio personale slancio creativo.

Signor Stern, partiamo dall’inizio. Vorrei ripercorrere la nascita del closlieu insieme alla sua vita, dagli anni del nazismo all’arrivo in Francia…

In effetti non si può separare il closlieu dalla mia vita personale, perché senza la guerra, senza il bisogno di nascondermi e la conseguente impossibilità di andare a scuola, non avrei mai scoperto i bambini. Ho avuto un’infanzia molto diversa da quella che vivono i giovani nella nostra società dell’abbondanza. Sono nato in una famiglia di origine ebraica che, sebbene borghese, non nuotava nell’oro. Erano gli anni di quella inflazione che sarebbe sfociata nella crisi del ‘29, con tutte le conseguenze che conosciamo. Quando mio padre ascoltò il discorso di investitura di Hitler decise subito di lasciare la Germania. Iniziò così il nostro lungo viaggio attraverso la Svizzera, la Francia e poi, durante il regime di Vichy, ancora la Svizzera, da cui fummo espulsi alla fine della guerra. Fu così che a ventidue anni mi ritrovai senza patria (sono stato naturalizzato francese solo negli anni sessanta), senza titoli di studio e privo di un bagaglio di nozioni pronte ad orientarmi: la situazione ideale per avvicinare i bambini. Il direttore dell’orfanotrofio di Fontenay-aux-Roses, il villaggio francese nell’Ile-de-France dove avevo trascorso gli anni dell’adolescenza, mi propose di lavorare con i suoi ragazzi. Accettai senza sapere bene cosa avrei fatto con loro: non avevano niente oltre a qualche pastello a cera, a dei vasetti di tempera e a della carta. Con mia grande sorpresa, questo poco materiale si rivelò più che sufficiente: il piacere e l’entusiasmo che quei bambini provavano nell’usarlo, mi entusiasmarono. Il closlieu nacque così, intorno a me e ai bisogni che quei ragazzi manifestarono dipingendo: fu perché un bambino voleva un foglio più grande dei soliti foglietti che usavamo che scoprii l’importanza del formato ampio e del dipingere in verticale invece che sul tavolo. E chiusi la finestra non per un’idea, ma perché vennero nuovi bambini e avevo bisogno di un’altra parete. Insomma, è stato per necessità che il closlieu ha iniziato a divenire quel rifugio di concentrazione e di quiete, dove la persona è protetta dalla distrazione, che vive ancora oggi. Trovo molto interessante che alla sua genesi abbia contribuito in modo determinante il piacere. Di norma, i pedagogisti lo vedono con molto sospetto. Invece per me è stata la prima cosa. Senza quel piacere, senza quell’entusiasmo, uniti al fatto che non avevo potuto andare a scuola e quindi non avevo alcun pregiudizio pedagogico, il closlieu non sarebbe nato. Chi generalmente si occupa di disegno infantile viene da qualche studio specifico: medicina, pedagogia, psicologia, filosofia, storia dall’arte… Non così accadde a me. In certo senso, ero un bambino io stesso, di incredibile ingenuità rispetto ai ragazzi di oggi, subissati da informazioni: non avevo teorie da verificare o idee da mettere in pratica. Questa sorta di verginità mi ha consentito di essere fra loro senza aspettativa e quindi di vedere la traccia del bambino per quello che realmente è: una necessità interiore che nulla ha a che fare con l’arte e con il bisogno di comunicare.

Nel closlieu, però, non dipingono solo bambini. Anzi, lei ritiene molto importante che il gruppo che si ritrova per un’ora e mezza una volta alla settimana sia misto anche dal punto di vista dell’età. Perché?

Divisi per età, sesso o quant’altro e chiusi nelle classi, i bambini imparano subito a ragionare all’interno di una categoria di appartenenza. Quando si incontrano, la prima domanda che si fanno è: “Che classe fai?” Non importa la persona, importa il gradino che occupa. Così, i piccoli guardano i grandi sperando di diventare presto come loro; i grandi guardano i piccini con disprezzo. Lo spirito settario, razzista, inizia proprio in questa innaturale divisione, quando facciamo in modo che piccoli desiderino diventare più forti e più grandi degli altri. E’ indispensabile combattere questa educazione alla competizione, al confronto, al continuo giudizio e all’inserimento in categorie prestabilite. Nel closlieu lo faccio riunendo persone molto diverse fra loro. La diversità concorre molto all’assenza di confronto, di giudizio, di continua e faticosa competizione. E’ proprio stando fra altri che sono tutti diversi che ognuno ha la possibilità di sentirsi se stesso e quindi di esprimersi.

Come si sviluppano nel closlieu le relazioni fra i vari partecipanti al gruppo?

Il closlieu restituisce alle relazioni una certa purezza perché in assenza di competizione e di continui stimoli ciascuno agisce secondo le proprie necessità. Se il foglio è lo spazio individuale, la tavolozza è lo spazio dove avviene l’incontro e dove si apprendono le regole del ben fare e del rispetto altrui: tenere il pennello in modo corretto, aspettare che altri abbiano finito di usare quello di cui si ha bisogno, posarlo in modo che tutti lo possano prendere senza sporcarsi le mani, guardare negli occhi chi lavora sulla parete opposta, scambiare due chiacchiere prima di tornare al proprio lavoro. L’esperienza del closlieu conferma che in un luogo dove venga valorizzata la diversità e al contempo garantita l’uguaglianza di trattamento, il bambino non si esprime a scapito degli altri, ma insieme agli altri. Per questo, cerco sempre di metterli molto vicini l’uno all’altro, così che lentamente si sviluppi quella sorta di seconda coscienza, o vigile attenzione, che ci permette di essere concentrati sul nostro lavoro senza per questo dimenticarci di chi abbiamo intorno.

Quest’ultima cosa che lei ha appena detto ci porta al ruolo del praticien, come viene chiamato l’adulto che conduce il closlieu. Qual è esattamente la sua funzione?

Né più né meno di quella di un ottimo servitore. Per alcuni può essere frustrante, perché di fatto il praticien non interpreta, non insegna, non comanda. Semplicemente, serve il bambino affinché possa rimanere concentrato sul proprio lavoro e lo aiuta ad apprendere l’uso corretto degli strumenti. Sembra facile, ma in effetti occorre tempo per sviluppare quell’attenta sensibilità che permette di servire ciascuno secondo le proprie necessità. D’altro canto, anche essere serviti in questo modo è esperienza inusuale, ed è importante che i bambini (qualunque età essi abbiano) riescano a pretenderlo. Mi sono sentito chiedere spesso perché non lascio che mettano le puntine da soli, o perché mi affanno a spostarle quando il bambino deve dipingere l’angolo, visto che i dipinti non vengono esposti. La risposta è semplice. Il bambino desidera comunicare; ogni volta che mi chiama (“Arno! Puntina”, “Goccia!”), entra in relazione con me. Se la comunicazione non avvenisse attraverso questi piccoli atti, mi chiamerebbe per farmi contemplare ciò che ha dipinto, e allora la traccia diventerebbe comunicazione e non avrebbe più la funzione espressiva del tutto personale che in effetti ha.

Difatti, nei suoi libri e nelle sue conferenze lei insiste molto sul fatto che per i bambini l’attività del dipingere non ha nulla a che fare con l’arte.

L’artista ha bisogno di un destinatario, di un pubblico. Non così il bambino. Finché non si accorge dell’effetto che i suoi lavori hanno sugli adulti, disegna per il suo piacere, creando sulla carta, con modalità molto simili a quelle del gioco, veri e propri mondi a sua misura. Questa esperienza lo rafforza e lo rassicura. Se si dà a un bambino che sappia ancora giocare uno scatolone, a seconda del momento e del giorno egli ne farà una nave, un’automobile, una casa: in altre parole, attraverso lo scatolone il bambino crea un mondo a sua misura, di cui è parte e nel quale gioca ruoli differenti. Così accade nel dipinti infantili, quando non deviati dalle aspettative, dalle interpretazioni psicologiche, dalle inutili parole degli adulti. Molti anni fa, osservando i dipinti dei bambini, mi sono accorto che alcune forme tornavano nei dipinti di tutti. Ho iniziato una lunga ricerca che mi ha portato il giro per il mondo, fra le pochissime popolazioni non scolarizzate che ancora esistevano negli anni settanta, e le ho trovare anche fra loro. Le potremmo definire elementi di un codice che ogni bambino utilizza in modo creativo, personale, proprio come utilizza lo scatolone: la forma quadrata e quella triangolare possono diventare una casa, una nave, una montagna; la forma raggiata può assumere le sembianze di un sole ma anche di una mano… L’adulto ha paura di quello che non capisce e cerca di incastrare la traccia del bambino in forme a lui note (il sole, appunto, o la casetta) o, ancora peggio, interpretandolo, operazione non diversa da quella che compie l’indiscreto che legge i diari o le lettere altrui. Facendo questo distoglie il bambino da ciò che per lui conta davvero: il piacere che prova nell’utilizzare in modo creativo queste forme che premono dentro di lui. Si tratta, infatti, di un’attività delicatissima. Bastano pochi commenti – “Che bello! E’ una casa?”; “Non vedi che hai fatto il camino storto?” – o richieste come quelle che usualmente vengono fatte a scuola nelle ore di cosiddetta educazione artistica – “Oggi, bambini, impariamo a fare la casa in prospettiva!” – perché si spenga e il bambino creatore si trasformi in quel bambino esecutore che mette sulla carta il mondo come noi vogliamo che lo veda. Nascono così quei dipinti divorati dai parassiti, come io chiamo le forme sempre più stereotipate che i bambini apprendono a scuola, e di cui fanno sempre più fatica a disfarsi, probabilmente perché le apprendono già da piccolissimi.

E’ questo il motivo per cui i dipinti rimangono nel closlieu?

Alla fine degli anni quaranta lasciavo che si portassero i dipinti a casa. Poi mi sono accorto che non andava bene. I bambini fanno di tutto per accontentarci e lo sguardo dei genitori – degli adulti in genere – finisce per sostituirsi al loro. Così ho deciso di proteggere i dipinti conservandoli nel closlieu. Oggi ne ho oggi circa cinquecentomila. 

E i bambini non chiedono mai di rivedere i loro lavori?

No, e questo dimostra che quel che conta per loro non è mostrare il prodotto finito, ma vivere l’esperienza del gioco del dipingere. Uno dei fenomeni che più sorprende chi si accosta al closlieu sono i dipinti di grande formato, i dipinti infiniti… Si tratta di un fenomeno di ampliamento dello spazio: il bambino parte da un solo foglio, ma il mondo che inizia a costruire è più grande, lo trascina. Ne chiede quindi un secondo e poi un terzo, un ventesimo… E’ come una storia che non si arresta finché il bambino stesso non avverte che è conclusa, esaurita. Allora inizierà una nuova avventura. Ma bisogna dire che tutto ciò che il bambino dipinge nel closlieu ha un senso per lui. Non spetta a noi cercarlo o provare a svelarlo attraverso l’interpretazione. Solo rispettarlo, consentendogli di viverlo.

Trova che sia cambiato l’immaginario dei bambini, che si sia in qualche modo impoverito?

Trovo che sia cambiata l’educazione. E’ tragico quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare ai bambini. Andando avanti di questo passo, l’infanzia morirà. Avremo solo piccoli adulti, precoci consumatori completamente vuoti, senza freschezza, senza futuro, senza speranza. Già oggi non possono più giocare liberamente, tutto viene loro insegnato, anche l’arte, e tutto in modo superficiale, sbrigativo. Arrivano nel closlieu soffocati dalle idee, con un grande bisogno di liberarsi dal peso di tante nozioni. Rispetto a vent’anni fa, hanno bisogno di molto più tempo per liberarsi di questa finta cultura e ritrovare la capacità di giocare. Sembra che per il gioco sia per lei una cosa molto seria… Di solito si tende a separare il gioco dal lavoro: al primo si connette il piacere, il divertirsi; al secondo la serietà. Ma quando gioca il bambino è molto serio, e quindi lo è anche quando dipinge nel closlieu. Per questo chiamo bambini anche gli adulti, perché quando sono qui ritrovano il piacere del gioco del dipingere. Rispetto alla sua domanda mi preme però sottolineare un altro aspetto. Siamo abituati a chiedere molto poco ai bambini. La precisione, il ben fare, la cura del proprio lavoro e degli strumenti che consentono di portarlo a termine, lo sforzarsi anche se si è stanchi… chi lo chiede ancora? Quando si propongono le cosiddette attività artistiche, li si incoraggia a sporcarsi tutte le mani, a imbrattare tutti insieme un medesimo pezzo di carta o un muro, come se fosse possibile esprimersi collettivamente attraverso gesti senza senso, causati soprattutto dalla confusione. Nel closlieu tutto questo è impensabile. Il foglio è uno spazio individuale inviolabile: nessuno commenta il lavoro altrui, nessuno ne chiede spiegazione, nessuno aggiunge o toglie. L’espressione creativa del bambino è tutelata al massimo. Dall’altra parte, però, si chiede un uso praticamente perfetto degli strumenti a disposizione. E questa richiesta, a cui consegue la capacità di fare bene – usare la giusta quantità di colore, lasciare tracce fluide sulla carta, riuscire ad avere la mano ferma – dà molta soddisfazione ai bambini che, contrariamente a quel che si pensa, sono esigenti, tendono naturalmente alla perfezione e amano superare se stessi attraverso sforzi calibrati.

Quindi secondo lei esiste una relazione precisa fra regole e libertà?

Direi piuttosto fra struttura e libertà, che sono anche i due poli entro cui ci si muove all’interno del closlieu. Oggi si hanno idee molto confuse circa la libertà. Si pensa che sia poter fare qualunque cosa, senza regole e senza limiti, acquistare tutto. Ma questa non è libertà. Se voglio essere veramente libero di giocare con uno strumento musicale, [in francese, come del resto in inglese, un solo verbo significa sia giocare che suonare] devo prima saperlo suonare bene. Se non so suonarlo bene, non posso nemmeno divertirmi. Ovviamente, è molto più difficile essere un virtuoso del pianoforte che un virtuoso della tavolozza: come chiunque può constatare andando a dipingere in un closlieu, un bambino ben guidato impara a usare perfettamente i pennelli e i colori in un’ora o poco più, e questa abilità è per lui molto piacevole e gratificante e lo aiuta a prendere coscienza di sé, delle proprie capacità, ad essere più sicuro. Guardi Momo [un signore di circa quarant’anni affetto da sindrome di Down che ha partecipato al closlieu aperto tenutosi qui a Mendrisio durante il corso]: non potrà mai pilotare un aereo, ma nel closlieu è un vero maestro e questa possibilità di essere un virtuoso della tavolozza gli dà un grande piacere e gli consente di esprimersi. Perché mortificarlo per ciò che non sa fare e non permettergli di vivere appieno ciò che sa e può? Il closlieu è un luogo di rigore e di libertà, perché secondo la mia esperienza l’una è conseguenza dell’altro. Bambini e ragazzi diventano aggressivi non per assenza o eccesso di libertà, ma per carenza di struttura: questo è il grande difetto dell’anti educazione di oggi. Al contrario, un bambino che sente il rigore e avverte la struttura, è libero di tracciare e la sua mano corre sul foglio con straordinaria fluidità e sicurezza: non ha alcun bisogno di utilizzare male i materiali e gli strumenti a sua disposizione o di denigrare il lavoro del vicino, perché la sua individualità è protetta. Vorrei fare un passo indietro. Lei parla molto di creatività, ma ho la sensazione che sia una parola da usare con una certa cautela: oggi tutti vogliono essere creativi, originali… Quando parlo del bisogno di sviluppare lo spirito creativo dei bambini, non mi riferisco alla creatività di tipo artistico. Nel closlieu i bambini non inventano nulla di nuovo: le forme che arrivano a mettere sulla carta sono sempre le stesse e chiunque abbia osservato i loro dipinti senza cercarvi traumi o chissà che altro, non può fare a meno di averli notati: la casa con il tipico camino storto, il personaggio, il mezzo di trasporto (aereo, automobile, treno), la pianta, il fiore, il sole, l’animale, il vaso con i fiori. Eppure, nonostante le forme siano sempre quelle, io sfido chiunque a trovare due dipinti uguali. Sviluppare la creatività non significa stimolarli affinché cerchino sempre cose nuove, ma consentire loro di avere fiducia in se stessi, lasciandoli ripetere quando hanno bisogno di ripetere. Tutto ciò nel closlieu accade naturalmente perché qui i bambini non vengono normalizzati. Non siamo a scuola, dove si pretende che funzionino secondo un preciso programma stabilito dagli adulti. Qui ciascuno può sviluppare la propria personalità perché non vi sono modelli, nessuno deve seguire o diversificarsi dagli altri.

Lei è molto critico sulla scuola, al punto che non vi ha mandato i suoi figli. Forse ne vorrebbe una senza competizione, senza giudizio. Esiste per lei una scuola possibile?

No. Non può esserci una buona scuola. La scuola è un’istituzione nata in una certa società per mantenere quella società. La nostra è la scuola per la società dei consumi e della competizione. Poiché non sono d’accordo né con i consumi né con la competizione e voglio cambiare la società, mi tengo lontano dalla scuola, che non ha alcuna intenzione di cambiare la società, anzi, la prepara e la perpetua. Io parlo con gli insegnanti da cinquant’anni, ormai. Fino a una decina di anni fa ne incontravo ancora di rigidi, supponenti, molto fieri del proprio ruolo di benefattori dell’umanità. Oggi non ci sono quasi più insegnanti fieri del loro lavoro. Soffrono perché sanno che quello che fanno è inutile. Lamentano che i bambini sono diventati aggressivi, impossibili, ma non si scandalizzano del fatto che siano costretti a stare a scuola ore ed ore, perché i genitori non possono o non vogliono occuparsene. Io credo che non esistano buone ragioni per lasciare i bambini a scuola tutto questo tempo. Si possono imparare le stesse cose, e molto più in fretta, a casa. Ma questo non è il mio problema, la scuola si distruggerà da sola, scomparirà. Esistono però dei saperi che è necessario apprendere. Penso a chi voglia diventare infermiere, o anche al senso del tragico del mondo greco, per esempio…Non sono d’accordo. Un sapere che ha bisogno di essere trasmesso che sapere è? E’ davvero necessario insegnare qualcosa ai bambini, imporre un programma di apprendimento uguale per tutti? Io credo di no. I bambini scoprono da loro stessi se si dà loro la possibilità di farlo. In ogni caso, gli esempi che lei fa riguardano persone adulte. E’ evidente che se vuoi diventare infermiere dovrai studiare medicina…

Quindi la scuola andrebbe bene dopo una certa età?

Non è mai una questione di età. Piuttosto di opportunità e di desiderio. Ogni persona deve trovare le risposte alle proprie domande e per questo non sono necessarie istituzioni. Vuoi diventare pittore? Vai a imparare il mestiere da un pittore. Vuoi diventare medico? Vai nelle strutture che insegnano medicina: la occidentale, ma anche la cinese, l’indiana, e altre ancora. Perché tutti dobbiamo studiare le stesse cose, lo stesso approccio? Bisogna ripensare l’apprendimento, perché la cultura non è un materiale da conservare e trasmettere secondo un programma. E’ il risultato di un percorso. 

Chi si accosta al closlieu facilmente chiede: “A cosa serve? Quali progressi si ottengono?”. 

Non mi piace la parola progresso perché implica sempre un cammino verso un obiettivo. Capita che si debba lavorare in questo modo, ad esempio per ottenere un diploma o imparare una lingua in tempi brevi, ma non nel closlieu. Quando il bambino arriva qui ha una certa attitudine, un certo modo di fare, di porsi; quando ne esce è certamente diverso: c’è stata un’evoluzione che si riflette anche sui suoi dipinti. Ma non parlerei mai di progresso. Piuttosto, se necessario, di cambiamento. Ma tutto questo è naturale: siamo sempre in continua evoluzione. 

Lei lavora ormai da sessant’anni ed è ancora infaticabile nel suo girare il mondo per diffondere il più possibile i closlieux. Eppure, nonostante l’impegno, questa è ancora un’attività semisconosciuta, tenuta ai margini. Cosa c’è di così irritante nel suo lavoro?

E’ inatteso. Bisogna poi considerare il ruolo umile del praticien e il fatto che il closlieu, con tutto quello che vi sta all’interno e intorno, va contro le facili parole e i facili guadagni che si fanno grazie ai disegni dei bambini. Più semplicemente, potremmo dire che il closlieu non è compatibile con un certo modo di vivere e conservare l’esistenza.